Rito di passaggio
Giovanna Ranieri
L’accompagnamento di mia madre nel rito di passaggio dalla vita alla morte è stato nella mia esperienza fondamentale, mi ha insegnato come vivere, quali sono le cose mportanti, in quegli ultimi istanti di vita, in quegli ultimi soffi vitali emana dal malato tutta la sua vita vissuta e ti arriva nelle narici con odori acri, sulla pelle che si accappona, che trema, che suda, che si raffredda; ti arriva allo stomaco, alla pancia che si restringono, si fanno duri come sassi, ti arriva al cuore che batte forte, che vuole esplodere, scappare via, ti arriva agli occhi che vogliono vedere, ma non vedere, finchè le ghiandole lacrimali si decidono a lasciarsi andare e allora la cascata d’acqua ossigena tutto il corpo e senti come un sollievo, un respiro nuovo che nasce da quella morte. Intanto scorrono nei tuoi occhi tutti i ricordi!
E poi il rito di accompagnamento, il funerale, un rito che in tutti i popoli di sempre è stato fondamentale. Anche per me lo è sempre stato, al di là delle forme più o meno grottesche, artistiche, conformiste, il rito del funerale per me è sempre stato importante. E’ in quel momento che il morto viene immortalato sulla terra attraverso i racconti che riguardano la sua vita. Le persone presenti sono tante, con alcuni ci si conosce con altri no, si incontrano amici o parenti che non si incontrano mai o che si conoscono per la prima volta e ne esce un collage di racconti che tutti assieme. ricostruiscono quella vita e il modo di ricordarla. Ognuno attacca un colore, un suono, una forma. Di solito dopo questo rito si crea un clima di serenità e gioia tra i partecipanti, si riesce ad accettare la morte come un fatto naturale e si gode delle vita del defunto. È bella l’usanza di ritrovarsi a mangiare assieme dopo il funerale.
Quest’anno i morti non possono essere accompagnati nel passaggio difficile e pauroso dalla morte alla vita dai parenti o dagli amici e tantomeno è possibile celebrare il rito funebre. Ci portano via i morti! Nessuna società antica avrebbe permesso questo senza rivendicarne il diritto. Anch’io, come molti, piango in silenzio i miei morti, persone che amavo, che hanno dato una svolta alla mia vita, figure essenziali, che hanno segnato il mio destino. Comunicazione via whatsapp, via facebook. e poi nulla. un vuoto terrorizzante, svuotante, disumanizzante, un dolore che non riesce a passare attraverso i miei sensi, che resta solo nella testa, che non riesce a diventare esperienza.
In particolare penso a Teresa 92 anni comunista accanita da giovane, era l’unica donna della scuola delle casalinghe politicizzata, con un minimo di istruzione, era la più vecchia. Così, chiusa in casa, da sola i ricordi fanno fatica a riaffiorare, a prendere senso, piango, soffro, ma non esce niente da me, è tutto come fermo dentro. Sto troppo male, così mi sento persa, derubata, violentata, devo fare qualcosa,celebrare il mio rito. Mi vengono in mente tutte le altre donne che ancora sono vive.che ancora vicine agli ottanta sono impegnate, si danno da fare, penso che la morte di Teresa è la fine di un’epoca storica, che oggi è cancellata, che non interessa più a nessuno, e in effetti è da un po’ che io sento che le mie esperienze della giovinezza oggi non servono a nessuno, i tempi sono cambiati così in fretta che tutta la mia esperienza sociale non conta più nulla ed è come se tutto questo si fosse cancellato anche dentro di me e fuori di me. Quante lotte e riunioni sulla riforma sanitaria, quanto lavoro di autoeducazione per diventare “medici a piedi scalzi”, quanto parlare pretendere la prevenzione della salute e ora scopriamo il fallimento di tutto questo. Teresa era stata una delle testimoni di tutto questo. Voglio onorare Teresa e in lei tutto quello che è stata l’esperienza, delle scuole popolari, Don Milani, la riforma sanitaria, scolastica, l’alfabetizzazione delle donne migranti. Devo agire, ma come? Cosa faccio, qui chiusa in casa senza poter uscire? Decido di approfittare della libertà di camminare vicino casa, esco, vado a vedere come stanno le altre donne, quelle con cui abbiamo cambiato assieme la vita del quartiere. Suono i campanelli delle loro case come facevo negli anni 70 per tirarle fuori di casa, per insegnare loro a scrivere, a diventare donne capaci di pensare autonomamente. Suono i campanelli per dire: “ Ciao Renata sono la Gio avevo voglia di salutarti e sapere se stai bene” Sì, Renata sta bene 83 anni, 4 figli, mi ha raccontato di tutti i suoi nipoti e di quando le ho fatto fare gli esami di terza media. “Stai leggendo ancora Renata? “Si, quello sempre, non smetto mai, mi fa compagnia almeno quello mi piace tanto, ma sali vieni su” . “No, dico io, non è prudente mi basta sapere che stai bene”. Tiro il fiato soddisfatta e contenta e poi suono il campanello di Pinuccia, 79 anni, la poetessa che dice sempre di essere analfabeta, ma da allora ne ha fatta di strada. “Ciao Pinuccia sono la Gio”, prima parliamo al citofono e poi si affaccia alla finestra che dà sulla strada, ci vediamo sorridiamo. Mi dice che le sarebbe piaciuto essere riuscita ad andare dal figlio che vive in un bosco sulle colline liguri e stare lì a fare l’orto. Un altro sospiro di sollievo o forse di vita. Poi suono il campanello di Luigina, ultimamente ha scritto una recensione per un libro sui migranti che mi ha lasciata a bocca aperta, anche lei scuola delle casalinghe, penso che queste donne mi hanno superata in cultura, coraggio, azione e sono contenta. Suono a Luisa, a Maria. Stanno tutte bene. Torno a casa. Mi sento leggera e contenta.
Cara Teresa questo è il rito funebre che sono riuscita ad organizzare per te. Grazie per essere passata nella mia vita.